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Ahiahiahi, lo chiamano credit crunch, definizione inutilmente complicata per significare che se chiedi un finanziamento il direttore “ti rimbalza” adducendo motivazioni poco o per nulla comprensibili. Lui ti parla di dual risk, di equity, di rating, di cierre eccetera, che non si sa se sappia che cosa stia dicendo. E, dopo averci esternato tutte le sue dotte perplessità, ci chiede altri documenti dicendoci che farà di tutto perché la pratica sia presentata in direzione. Non verrà accolta, e passeranno dei mesi prima di avere la risposta, ma nel frattempo lui potrà sostenere di aver fatto il massimo. Cioè aver passato ai piani superiori una quantità di carta che neanche il dizionario Palazzi ha tante pagine. In realtà le banche italiane sono messe peggio delle PMI ma non possono ammetterlo. I principali istituti sono di proprietà delle fondazioni. E le fondazioni confermano i presidenti solo se pagano i dividendi. Indipendentemente dai risultati. Altrimenti li fanculizzano, cioè li spediscono sul pianeta Papalla, ovviamente con laute liquidazioni e sentiti ringraziamenti. In modo che, ringraziati e premiati, i nostri non scoperchino i pentoloni.

Negli Stati Uniti dall’inizio della crisi, cioè dal settembre 2008, sono fallite 280 banche. Da noi zero fallimenti al quadrato. Le nostre banche sono sane, etiche e trasparenti, ci mancherebbe. La dimostrazione? Le tre principali (Unicredit, Intesa San Paolo e Montepaschi) a chiusura della causa intentata da Parmalat, nel 2007 hanno pagato più di 1 miliardo; e nel 2011 ne hanno pagati quasi 2 allo stato per evasione fiscale. Se non ve ne siete accorti è perché queste notizie sui quotidiani compaiono a pagina diciassette a fianco alla storia dello sfidanzamento tra Belen e Corona. Salvo che non succeda qualcosa di clamoroso, allora i giornali lo scrivono in modo che intervengano i politici e lo stato. Montepaschi avrebbe un patrimonio teorico di 10 miliardi, ma 17 miliardi di crediti inesigibili. Per cui un capitale negativo di non meno di 7 miliardi. Qualunque altra azienda sarebbe fallita da cinque anni, MPS no. Secondo Profumo (che in Unicredit aveva adottato per primo i derivati in Italia) con 5 miliardi prestati dallo stato ad un tasso del 9% la banca tornerebbe “in sicurezza”. Facile! Banca d’Italia mette a disposizione 10 miliardi senza garanzie a un tasso del 2,5%, lo stato 5 miliardi al 9%, la media fa il 4 virgola, poi si presta il denaro a terzi al 10%, si aggiungono balzelli tipo un 1% per la disponibilità immediata fido (ex massimo scoperto “cancellato” dalle lenzuolate del buon Bersani), si chiedono 1,5 €uro per operazione e si tiene in piedi la pesantissima baracca. Ma se anche avessero delle disponibilità, le banche sarebbero costrette ad impiegarle per l’acquisto dei titoli di stato, oramai difficili da ricollocare ai risparmiatori che si fidano sempre meno. Lo stato da, lo stato prende. Quindi si azzera la possibilità di destinare risorse all’industria. Proprio per questo motivo la corretta gestione del credito nelle PMI si complica.

Negli Usa gli avvocati sanno che ai testimoni non vanno fatte domande delle quali non si sappiano le risposte. Analogamente le aziende non devono chiedere finanziamenti senza avere sicurezza che la richiesta possa essere accolta. Significa che bisogna gestire le relazioni con le banche come è necessario oggi, e non come si faceva ieri. Altrimenti le risposte alle nostre richieste saranno: ni (forsesiforseno), ohibò (nonsaprei), mahhhh (magarisi). Cioè INUTILI! E, già che ci siamo, èppyister-buonapasqua!